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Un’Europa, molte Europa
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Articolo di Redazione
7 giugno 2017 6:43
 
 Discorso di Timothy Garton Ash *, di ringraziamento in occasione della consegna del premio Carlo Magno – Aquisgrana 25 maggio 2017
Ciò che conta è la parola detta!
Stimatissimo signor Presidente federale, stimatissimo signor Sindaco, stimatissimo signor Linden, gentili signore e signori!
Mi sento profondamente onorato di essere insignito quest’anno del premio internazionale Carlo Magno, e accetto questo onore in quanto Europeo inglese. In questi giorni alcuni sono un po’ stupiti dalla combinazione tra questo sostantivo e questo aggettivo: Europeo inglese. Ma, dopotutto, uno dei più importanti consiglieri dell’imperatore Carlo Magno era un anglosassone, e cioè il dotto Alcuino di York. La mia università di Oxford da 900 anni è Università europea. Una storia d’Europa che non menzionasse tutti i contributi autonomi e collettivi di inglesi, scozzesi, gallesi e irlandesi, di Shakespeare, Adam Smith, Winston Churchill e George Orwell, sarebbe come un’orchestra sinfonica senza archi (o piuttosto senza ottoni?). Come ho scritto il giorno dopo il voto della Brexit, la Gran Bretagna può lasciare l’Europa allo stesso modo in cui Piccadilly Circus può lasciare Londra.
Ma ciascuno arriva a una comprensione consapevole come Europeo per una strada tutta sua. Io sono diventato un appassionato Europeo grazie alla mia intensa, indimenticabile esperienza personale di vivere in una Germania divisa, di seguire la nascita del movimento di Solidarnosc in Polonia e di vivere insieme con importanti uomini mitteleuropei insigniti del premio Carlo Magno, quali Václav Havel, Bronislaw Geremek e György Konrad, la liberazione di Varsavia, Praga, Budapest e Berlino. In questi tempi stimolanti la causa della libertà e la causa dell’Europa vanno a braccetto: libertà significava Europa, Europa significava libertà.
E’ noto che non tutti i miei connazionali si considerano tanto gioiosamente Europei. Quando ho riletto il discorso di ringraziamento dell’ultimo premiato britannico, Tony Blair, non ho potuto trattenere un sorriso, percependo quello che era il centro del suo messaggio: “La Gran Bretagna deve superare il suo atteggiamento ambivalente nei confronti dell’Europa”. Questo atteggiamento ambivalente – non è più certamente una peculiarità britannica – è, per così dire, il pendant politico del “Fish ‘n’ Chips”. L’euroscetticismo “britannico” e il populismo nazionalistico si rinvengono oggi in tutti gli angoli del continente.
Né l’ambivalenza britannica è scomparsa, come per incanto, col voto della Brexit. In realtà, nella mia vita non ho mai vissuto un filo europeismo tanto appassionato come nella odierna Gran Bretagna, specialmente in Scozia, a Londra e tra la gioventù. Non meno del 48 percento, che ha votato perché la Gran Bretagna restasse nell’Unione Europea, si è rassegnato al risultato. Con l’appartenenza all’Europa è come con la salute: si apprezza davvero solo quando va perduta. Ma siate certi di questo: noi, Europei britannici non abbiamo mollato.
Ciò porta con sé una questione importante che concerne il rapporto tra individuo e comunità. L’idea di un modo giuridico formale di cittadinanza statale individuale dell’UE per gli Europei britannici post Brexit è certamente irrealistica, ma a una comunità, che definisca i suoi componenti soltanto attraverso la loro appartenenza a uno Stato membro e che chieda sempre il passaporto a una persona anche nei dibattiti intellettuali e politici, manca qualcosa. Se vogliamo approfondire il nostro sentimento comunitario europeo, dobbiamo imparare a vederci e a riconoscerci reciprocamente Europei in quanto individui.
Per uno storico europeo è un’esperienza molto particolare parlare in questa sala dell’incoronazione, carica di storia, solo un paio di metri distante dalla chiesa che Carlo Magno fece erigere più di 1200 anni fa. In questo luogo ci si sente letteralmente costretti a pensare in dimensioni storiche. La politica e la storia hanno un computo del tempo differente. Un premier britannico osservò, una volta, che una settimana, in politica, è un periodo di tempo lungo. L’orologio della storia, invece, misura nell’ordine dei secoli. Ora, la storia europea attraverso i secoli si può interpretare come una oscillazione continua tra epoche connotate da un ordine europeo, per quanto questi ordini fossero egemoni e iniqui, e fasi di disordine di solito violento. Viste così le cose, la nostra epoca è abbastanza eccezionale.
Infatti, nei settantadue anni trascorsi dalla fine della seconda guerra mondiale, non abbiamo più vissuto una grande guerra tra Stati. Non trovo negli ultimi due secoli nessun altro periodo di tempo paragonabile senza una grande guerra. Ora, bisogna naturalmente aggiungere subito che in Europa, dal 1945, c’è stata una guerra tremenda, dalla guerra civile in Grecia al conflitto armato nella Ucraina orientale, che viene ancora tenuta in caldo da Putin, passando attraverso le guerre sanguinose nella ex Jugoslavia. Ma non c’è stata una grande guerra. Ciò è tanto più rimarchevole dato che in questo periodo si arrivò a uno spostamento tettonico da un ordinamento all’altro: alla fine dell’impero sovietico e della guerra fredda negli anni 1989-1991. Nel passato, un evento così radicale sarebbe stato accompagnato da una guerra. Mai, prima, così tanti Paesi europei erano democrazie liberali, la maggior parte dei quali si trovavano nelle stesse comunità politiche, economiche e della sicurezza. Per riprendere una famosa osservazione di Winston Churchill sulla democrazia: è l’Europa peggiore possibile, eccezion fatta per tutte le altre Europa che si sono sperimentate finora.
Ma lo storico può guardare a questo lasso di tempo di due secoli e dire: “Ebbene, una grande crisi avrebbe dovuto già esserci”. E senza dubbio le numerose crisi, con cui hanno da lottare oggi diverse parti d’Europa, si collegano a una crisi dell’intero programma europeo quale si è sviluppato dal 1945.
Qui lo storico e il politico, l’intellettuale in generale e il politico giocano necessariamente ruoli differenti. Il mio compito si può molto semplicemente riassumere così: si tratta di cercare la verità, di riuscire a scoprire la verità nella misura in cui lo consentono dei documenti esaminati criticamente e degli argomenti razionali, e poi esprimere questa verità nel modo più accurato, chiaro e vivace possibile. Io faccio quindi il mio mestiere quando cerco di distinguere le cause di questa crisi esistenziale e di richiamare l’attenzione sui punti deboli che sono stati utilizzati dai populisti nazionalisti. Così, per esempio, un Europarlamento eletto direttamente esercita, in effetti, dei considerevoli controlli democratici sulle leggi europee e i provvedimenti politici, ma la maggior parte degli europei non ha la sensazione di essere direttamente rappresentata a Bruxelles e di sentirvi ascoltata la propria voce. Molte società europee hanno grandi difficoltà ad accettare la dimensione e il ritmo dell’emigrazione, non da ultimo di quella che viene agevolata a causa dell’abbattimento dei confini interni all’Europa, data la contemporanea insufficiente sicurezza dei confini esterni dell’area di Schengen. Ed io spero che il vincitore del premio Carlo Magno del 2002 – l’Euro – non si senta offeso personalmente se io richiamo l’attenzione sul fatto che l’Eurozona, che in origine doveva accelerare l’unificazione europea, negli ultimi anni ha provocato dolorosi fossati tra il nord e il sud dell’Europa. Queste sono verità scomode, ma io credo che lo spirito di Alcuino di York concorderebbe con me che il compito dello scienziato è quello di esprimerle.
Il politico, invece, deve sempre partire dalle realtà attuali, deve sempre fare attenzione alle proprie parole e comunicare un sentimento del tipo “Yes, we can”, che tradotto suona: “Sì, lo faremo”. L’intellettuale deve esprimere la verità che nessun impero, nessuna confederazione di Stati, nessuna coalizione e nessuna comunità durerà in eterno, e questo sarà il caso anche dell’Unione Europa. Il politico deve mirare a che il nostro impero europeo senza precedenti, libero, pacifico, duri più a lungo di quanto sia umanamente possibile.
Ma se Voi siete come me uno ‘spectatuer engagé ‘, potrete dare un contributo a queste imprese politiche, semplicemente dicendo chiaramente la verità storica. Io affermerei che il fattore più importante, che ha dato impulso all’integrazione europea per tre generazioni dopo il 1945, è rappresentato dai ricordi individuali, personali della guerra, dell’occupazione, dell’olocausto e dei gulag, delle dittature, sia fasciste sia comuniste, nonché delle forme estreme del nazionalismo, della discriminazione, della povertà. Ora, per la prima volta, abbiamo una intera generazione di Europei che prevalentemente – non tutti ma la maggior parte – sono cresciuti dal 1989 senza esperienze traumatiche e determinanti di questo genere. Essi conoscono solo un’Europa che è in gran parte unita e prevalentemente libera. Quasi inevitabilmente tendono a considerare ovvio questo fatto; giacché l’essere umano tende molto in generale a considerare in certo senso normale, anzi, persino naturale ciò con cui è cresciuto e ciò che scorge intorno a sé. Czeslaw Milosz descrive efficacemente questo fenomeno nel suo libro ‘La mente prigioniera’. Lì egli ci paragona a Charlie Chaplin nella “Febbre dell’oro”, dove il protagonista si affaccenda tutto contento in una baracca minacciosamente in bilico sullo strapiombo.
Io spero che non siamo ancora a questo punto, ma dobbiamo trasmettere in qualche modo a questa generazione che ciò che essa oggi considera normale, dal punto di vista storico è, in realtà, profondamente anormale – insolito, eccezionale. L’anno passato, nel suo discorso di ringraziamento, papa Francesco menzionò la richiesta di Elie Wiesel di una “trasfusione di memoria” agli europei più giovani. E’ proprio di questo che si tratta. E’ naturale che questo non è paragonabile all’effetto della diretta esperienza personale. Ma studiare la storia ha, tra l’altro, lo scopo di imparare dalle esperienze di altre persone, senza doverle fare direttamente noi stessi. Tra i segni incoraggianti degli ultimi mesi si annovera una nuova mobilitazione della generazione degli Europei post 1989, che fa vedere che il loro polso batte più velocemente per l’Europa.
Un altro più generale insegnamento della storia è questo: ciò che in origine è stato solo un mezzo per raggiungere uno scopo, può, nel corso del tempo, diventare fine a se stesso. (Chi abbia mai provato ad abolire un comitato universitario o una qualche istituzione, sa di cosa parlo). Nel suo discorso inaugurale al Congresso d’Europa, tenutosi all’Aja nel 1948, il conte Richard di Coudenhove-Kalergi, l’uomo che più tardi sarebbe stato il primo a ricevere questo premio, ebbe a dire: “Pensiamo, amici cari, che l’Europa è un mezzo e non un fine”. E questo detto da un sommo sacerdote dell’unificazione europea in un’epoca in cui l’Unione Europea non era che un sogno. Il suo ammonimento è oggi di particolare rilevanza. Tutte le istituzioni europee, che abbiamo creato, sono mezzi per uno scopo più alto, non fini a se stesse. Dovremmo chiederci di continuo: “Questa istituzione o quello strumento adempie ancora al suo scopo, è quanto di più adatto a raggiungerlo?” Non porta a niente pretendere sempre solo “più Europa, più Europa”. La risposta giusta sarà spesso che noi abbiamo bisogno di più di questo, ma meno di quello. Solo un’organizzazione, che sia in grado di ridistribuire il potere sia verso il basso sia verso l’alto, a seconda delle mutevoli esigenze, sarà considerata vitale e responsabile dai suoi cittadini.
E, infine, è il contrasto a caratterizzare molto fortemente la storia europea, il contrasto tra unità e molteplicità. Qui ad Aquisgrana pensiamo inevitabilmente al Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca, l’impero europeo che ha avuto la maggiore durata. Come mostra lo storico Peter Wilson, questo fatto ebbe soprattutto una ragione: si aveva la sensazione che le sue grandi strutture non minacciassero di centralizzare e omogeneizzare l’enorme varietà di comunità politiche, religiose e giuridiche, che erano raccolte sotto la sua egida, ma, al contrario, di renderle sicure e proteggerle. La sua legittimità e la sua longevità questo impero le trasse dalla sua capacità di vivere con questa complessità e così, anche, con una certa dose di cronico dissenso: “Benché l’impero verso l’esterno ponesse l’accento sull’unità e l’armonia, in realtà funzionava in modo tale da accettare la disputa e il disaccordo come elementi costanti della sua politica interna”. Io credo che in questo ci sia un insegnamento per l’Unione Europea.
La nostra odierna molteplicità europea non è soltanto quella degli Stati e delle storie, ma anche quella delle culture e delle lingue, in cui queste sono collocate. Queste fondamentali differenze di cultura, lingua, e tradizioni di pensiero hanno anche un’influenza determinante sulle nostre idee di Stato, diritto e politica, e quindi dell’ordine politico che deve essere istituito tra Stati e Popoli.
L’Europa sarà più forte, se e quando potrà fare posto a tutte queste forme di varietà. Quando si tratta delle articolazioni, la medicina conosce due problemi opposti: la ipermobilità, cioè quando l’articolazione è troppo poco stabile, e la ipomobilità quando l’articolazione è troppo poco mobile. L’Europa viene indebolita, quando le sue strutture sono troppo poco stabili, ma anche quando sono troppo rigide. Come un partecipante alle olimpiadi l’Europa deve essere tutte e due, forte e flessibile: forte perché è flessibile, flessibile perché è forte.
Avrete notato, nel frattempo, che io ho condotto una specie di velocissimo walzer viennese attraverso tutta una serie di opposti: l’individuo e il collettivo, il tempo storico e il tempo politico, l’intellettuale e il politico, il mezzo e il fine, il nazionale e l’europeo, il realismo e l’idealismo e, last but not last, la complessità e la semplicità. Infatti, alla fin fine, ciò che vogliamo è molto semplice: noi vogliamo che le persone in Europa godano libertà, pace, dignità, lo stato di diritto, un adeguato benessere e la sicurezza sociale. Come possiamo raggiungere questi semplici scopi, è questo a essere necessariamente alquanto complicato.
[fino qui pronunciato in inglese e quindi traduzione in tedesco e poi in italiano--- da ora in poi l’originale è in tedesco]
Permettetemi, per concludere, di rivolgere due parole alla Germania e ai Tedeschi.
Quando venni per la prima volta in Germania, all’inizio degli anni Settanta, le ombre della seconda guerra mondiale e della dittatura nazionalsocialista erano ancora onnipresenti. (Il mio primo argomento di ricerca fu la Berlino nel Terzo Reich). Il Paese era dolorosamente diviso e io vissi molto da vicino quella seconda dittatura tedesca che oggi viene associata con una odiosa abbreviazione: Stasi.
Poi, all’improvviso, arrivò l’annus mirabilis 1989, e la Germania ebbe del tutto inaspettatamente la sua “seconda chance”, per riprendere la giustamente famosa formulazione di Fritz Stern. In più di un quarto di secolo ho da allora osservato con crescente ammirazione come la Germania riunificata abbia usato questa seconda chance. Personalmente trovo incredibilmente commovente che oggi i profughi di tutto il mondo sognino di andare in Germania come fosse la Terra Promessa. E’ pur meraviglioso che la Germania oggi si innalzi come un’isola di stabilità, di accortezza e di liberalità in un oceano di populismo nazionalistico. Quando considero questa svolta storica dall’oscurità alla luce, ogni volta ciò mi riempie di autentica e grande gioia.
Ma – c’è sempre un “ma” – la seconda chance, più precisamente: la seconda metà della seconda chance sta sempre davanti a noi – vale a dire la metà paneuropea. Con un nuovo presidente francese decisamente filoeuropeo si offre alla Germania e alla Francia ancora una volta l’occasione di procedere insieme, come spesso è già accaduto prima nella storia della integrazione europea. Questa seconda metà della seconda chance non sarà però facile. La Germania si trova sempre davanti al vecchio problema dell’ “ordine di grandezza critico” – troppo piccola, eppure troppo grande. Una leadership intelligente in Europa ha bisogno della spiccata capacità di vedere sempre anche con gli occhi degli altri Europei, necessita di capacità di immedesimazione. Ha bisogno anche di calma, fiducia e coraggio.
Il presidente federale Frank-Walter Steinmeier ha fatto della parola “coraggio” il concetto chiave del suo discorso di insediamento. In ciò rientra il “coraggio della verità”, di cui il presidente Emmanuel Macron ha parlato in modo molto efficace. In ciò rientra però anche il coraggio del compromesso. Vivere il coraggio con l’incertezza, l’imperfezione, anzi persino con la mancanza di vincoli – come nel Sacro Romano Impero. In breve: vivere non è un progetto complessivo! Questo vale più che mai per la vita politica dell’Europa.
Nel suo studio sulla storia di Berlino Karl Scheffler ha scritto cento anni fa che la città è “condannata a trasformarsi continuamente e a non essere mai”. La stessa cosa si potrebbe dire dell’Europa. Non verrà mai quell’istante sublime, in cui si possa gridare: “Eccola, l’Europa ultimata! La belle finalité européenne – fermati dunque, sei così bella!”.
No, anche l’Europa è condannata a trasformarsi in continuazione e a non essere mai. Ma questa non deve essere necessariamente una maledizione, può anche essere una benedizione. Se si è un po’ in là con gli anni, si vede che gli anni della trasformazione sono spesso gli anni più belli della vita. Così l’Europa perennemente non ultimata ha la possibilità di restare sempre giovane. Realizziamola, dunque, insieme – questa trasformazione dell’Europa, che non ha mai fine.

(Da “Die Zeit” settimanale online del 25 maggio 2017)

saggista e giornalista britannico, professore di Studi Europei presso l'Università di Oxford
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