testata ADUC
IL GIORNO DEL NON ACQUISTO: E IL DESIDERIO?
Scarica e stampa il PDF
Articolo di Annapaola Laldi
1 dicembre 2000 0:00
 
Il 24 novembre scorso si e' tenuto in 48 paesi del mondo, dal Canada all'Australia, dagli USA al Guatemala, dalla Francia alla Tunisia, il GIORNO DEL NON ACQUISTO.
Ideato nel 1992 dal canadese Ted Dave, il Buy nothing day (e' questo il suo nome originale), e' organizzato e sostenuto in Canada dalla Adbusters Media Foundation .
In Italia l'iniziativa e' approdata solo quest'anno grazie all'impegno del periodico di strada "Terre di mezzo" , della Rete Lilliput e del mensile "Altreconomia" , ma e' forse passata inosservata alla maggior parte della gente anche perche' i media -almeno i giornali- ne hanno parlato pochissimo.
Qui mi sembra il caso di parlarne, non foss' altro che per rendere onore a un'altra bella pulce nell'orecchio. Il giorno del non acquisto, infatti, vuole porre tanti interrogativi su una cosa che sembra scontatissima e necessaria come il comprare. Vuole richiamare l'attenzione sul fatto che gli acquisti che facciamo vanno ben oltre le nostre reali necessita' e sulla dipendenza che tutti, piu' o meno, abbiamo dalla pubblicita'.
Ma c'e' un altro motivo per cui la cosa mi interessa. Le osservazioni contenute nell'editoriale di novembre di "Altreconomia" sono degne di riflessione: l'essere umano non e' solo un apparato digerente atto a trangugiare tutti i prodotti offerti dalla pubblicita', ma e' anche costituito da altre sfere, come quella affettiva, sociale e spirituale che, nel consumismo, vengono mortificate, se non addirittura cancellate con gravissimo danno per le singole persone e la societa'. La sobrieta', si legge nell'editoriale, e' un passaggio obbligato, un aiuto, per porre un argine a questa fame insaziabile che ci ha fatto perdere il senso della sazieta', ragion per cui non sappiamo piu' quando la nostra fame e' davvero necessita' di nutrimento.
Prendere sul serio questi inviti puo' essere un primo passo per mettere a nudo il fatto che la nostra vita e' costituita nella realta' quotidiana da una serie di abitudini che si ripropongono continuamente e, si potrebbe dire, per forza d'inerzia, e che sono dure a cedere anche quando vi applichiamo sopra uno sguardo attento e critico.

Ma a me pare che vi sia dell'altro, e mi viene da chiedermi: ma il consumismo e' davvero figlio della pubblicita' oppure e' vero il contrario: e' la pubblicita' figlia del consumismo?
In altri termini, non sara' che il consumismo ce lo portiamo dentro di noi, proprio come esseri umani, a prescindere dal fatto che viviamo o meno in una societa' "consumista"? E che quindi la pubblicita' non e' che un logico risultato (quasi un corollario) di questa nostra disposizione?
Mi ha colpito il fatto che il GIORNO DEL NON ACQUISTO sia stato adottato anche in Paesi del cosiddetto "Terzo Mondo", cioe' nelle Filippine e in Brasile, in Guatemala e in Tunisia. Si dira' che li' il problema assume un aspetto piu' acuto e stridente perche', di fronte alla minoranza ricca, che consuma in modo esagerato, vi e' la stragrande maggioranza povera o poverissima che non puo' consumare niente o quasi. Ma potrebbe essere che nei promotori dell'iniziativa in quei Paesi sia presente anche l'altro aspetto del problema, cioe' il fatto incontestabile che i poveri desiderano poter consumare a loro volta, e lo fanno appena ne sono in grado, anzi, in modo ancora piu' inconsulto, a volte, di chi e' abituato ad avere un minimo di garanzia e di sicurezza economica.
Quando parlo di disposizione che ci portiamo dentro, non intendo riferirmi a fatti semplicemente psicologici, come potrebbe essere il senso di rivalsa per privazioni subite o la compensazione di carenze affettive, frustrazioni, ecc.
No, mi riferisco a qualcos'altro, secondo me molto piu' profondo, forse addirittura biologico, un qualcosa di ancestrale legato alla sopravvivenza che puo' avere avuto un senso nell'evoluzione, ma che a un certo punto e' per cosi' dire "impazzito", o meglio ha trasformato se stesso in fine, dal mezzo che era.
Alla radice non puo' esserci, appunto, il puro bisogno di sopravvivenza che ci continua a martellare (di piu' e piu' occultamente di ogni pur martellante pubblicita') da qualche piega recondita della parte piu' antica del nostro cervello? E che la parte evoluta di questo stesso cervello, quella di cui l'essere umano va cosi' fiero, in realta' non sa discriminare, e, anzi, si mette al servizio di questa primordiale necessita' perfezionando sistemi e metodi che pero' nella realta' attuale del mondo diventano veri e propri boomerang distruttori?
Che ci possa essere qualcosa del genere mi baleno' nella mente di fronte a un'osservazione comparata molto semplice. Molti anni fa una coppia di amici adotto' due fratellini che avevano vissuto fino ad allora una vita di stenti. A tavola questi bambini si riempivano il piatto a dismisura, senza poi riuscire neppure a mangiare tutto quanto, benche' si rimpinzassero fino all'indigestione. La cosa fu spiegata come prova ed effetto delle privazioni subite: l'accaparramento era l'unico modo per salvaguardarsi e sopravvivere. E va bene. Ma l'interessante e' che, alcuni anni dopo, ho rivisto fare la stessa cosa a un bambino che conosco e di cui sono amica fin da quando e' nato, il quale e' figlio unico e siede a una tavola in cui non c'e' carenza di cibo e neppure adulti che si abbuffano. E allora? Perche' questo atteggiamento ben poco spiegabile con esperienze pregresse o con l'imitazione? Forse perche', allora, siamo di fronte, in realta', a comportamenti ancestrali.
Guardando bene la cosa, mi sono accorta che cio' ha molti punti in comune con quanto chiamiamo consumismo, che e' in fondo un accaparramento di oggetti, spesso superflui, se non addirittura inutili, che placano un momentaneo "bisogno" apparentemente psicologico, il quale "bisogno", peraltro, si ripropone in continuazione, magari spostandosi su altre categorie di oggetti.
E andando ancora piu' a fondo, si puo' notare che questo consumismo non si limita al piano materiale (oggetti o cibo), ma e' ben presente anche sul piano del pensiero, dei sentimenti, degli affetti. E la mercificazione dei sentimenti, delle idee, delle stesse persone non e' certo un fenomeno moderno, ma antico quanto il genere umano. I sapienti dell'antichita' occidentale e orientale conoscevano benissimo tutto questo, in tempi in cui certo non esistevano le situazioni e le parole moderne, ma la realta' sostanziale si'. Il non soffermarsi, il non approfondire, il passare da una cosa all'altra, da un pensiero all'altro, da una persona all'altra, in una ricerca a volte spasmodica non solo di novita', ma proprio e soprattutto di sicurezza e di appagamento, sembra un costume molto ma molto antico.
Molto antico e radicato anche in persone "al di sopra di ogni sospetto", come possono sembrare, ad esempio, quelle che dicono di dedicarsi solo allo spirito. Perche' neppure la spiritualita' sfugge alla sorte di diventare oggetto di consumo; anzi, nella misura in cui essa, specie nella forma della religione, limita la sua attivita' ad offrire la sicurezza di una permanenza al di la' di quello scacco insopportabile per l'essere umano che e' la morte, e' proprio il primo e il piu' ambito oggetto di consumo. Con il grave rischio di costituire un enorme alibi per non porsi quei problemi salutari che invece si pongono e si impongono, come si vede, quando ci si rapporta con le cose "carne a carne".

Ecco perche' alle motivazioni della GIORNATA DEL NON ACQUISTO e alle considerazioni dell'editoriale di "Altreconomia" mi sono permessa di mettere quest'altra pulce nell'orecchio. Vedere la sfera materiale distinta e quasi in contrapposizione con quella affettiva, sociale, spirituale mi pare infatti limitante e addirittura fuorviante, perche' l'essere umano e' un tutt'uno e le forze che lo muovono (o lo bloccano), agiscono su tutti i piani, anche se con visibilita' diversa.
Di fronte a una cosa dagli effetti davvero perversi sulle persone singole e sulle societa' com'e' il consumismo attuale, sara' il caso di vederlo non esclusivamente come il nemico da battere, ma anche e soprattutto come un segnale macroscopico che ci obbliga ad andare a osservare quella molla potente -forse di origine biologica- che vi sta sotto e che e' poi il desiderio? Sara' venuto il momento di vedere quest'ultimo, come forza globale, al singolare, senza le moralistiche distinzioni in "desideri buoni" e "desideri cattivi"? E di confrontarci apertamente con esso senza pregiudizi moralistici, ma in modo originale, in un modo come non e' mai stato fatto prima, per poterlo conoscere meglio nella sua struttura e nei suoi meccanismi? Non so cosa potremo scoprire e cosa potra' succedere, ma mi pare abbastanza sicuro che, se non andremo alla radice del problema, rischiamo di continuare a girarci ciecamente intorno, proprio come quegli antichi schiavi condannati a girare le mole dei frantoi e dei mulini, che, per impedirgli di impazzire, venivano appunto bendati.
 

Pubblicato in:
 
 
ARTICOLI IN EVIDENZA
 
ADUC - Associazione Utenti e Consumatori APS