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La guerra alla droga e’ il nuovo Jim Crow statunitense
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Articolo di Redazione
15 marzo 2017 11:47
 
 Michelle Alexander non avrebbe mai scritto questo libro se, un giorno, non fosse stata attirata da un volantino incollato su una cabina telefonica che diceva: “La guerra contro la droga e’ il nuovo Jim Crow”. Jim Crow? E’ il nome dato in Usa al luogo che, dopo l’abolizione della schiavitu’ e fino al 1964, fu instaurata la segregazione razziale negli Stati del sud. Dopo aver visto questa scritta, Alexander non capiva. Come si puo’ paragonare l’aumento spettacolare dell’incarcerazione dei neri a causa della lotta alla droga e la segregazione razziale? Ma grazie allo stato delle scienze sociali e delle ideologie esistenti comincio’ a percepire come un annuncio un po’ folle di un gruppo militante comincio’ a mostrasi come un’evidenza; si’, oggi, in Usa, l’incarcerazione di massa e la guerra alla droga formano un sistema di controllo razzista che funziona come qualcosa che assomiglia alla segregazione.
Il “Colore della Giustizia e’ una grande opera sulla verita’ e sulle condizioni di accesso alla verita’. Alcune logiche nascoste agiscono nel mondo, che producono a nostra insaputa cio’ che ci si presenta sotto il nome di “la realta’”. Pensare, pertanto, e’ rompere con le percezioni spontanee per ricostruire la razionalità oggettiva di cio’ che l'esperienza sente in forma di fatti disordinati. In fondo, si potrebbe dire che Alexander cerca di dare un significato nuovo ad un fatto noto: i neri sono sovraesposti all’apparato repressivo dello Stato. Nel 2006, 1 uomo nero su 14 e’ in prigione -rispetto ad 1 su 106 dei bianchi. Ci sono piu’ neri in prigione che schiavi nel 1850.
Le spiegazioni tradizionali di questa realta’ invocano i “pregiudizi razziali” del sistema penale, la “criminalita’ cresciuta” degli afro-americani, o ancora la prevalenza di “logiche economiche” (punire i poveri). Secondo Alexander, queste storie sono false. Esse non riscrivono la prigione nella sequenza adeguata. Per comprendere cosa succede, bisogna modificare la nostra osservazione e legare la questione penale non alla storia del diritto, delle discipline o del neoliberismo, ma a quella dell’oppressione razziale. I grandi libri sono affermativi. Michelle Alexander pone una linea e la sviluppa. Dopo la fondazione degli Usa, gli afro-americani non hanno cessato di essere vittime di un sistema di caste razziali che non cessa di riprodursi trasformandosi. C’e’ stata la schiavitu’. C’e’ stata la segregazione. Dal 1964, la segregazione e’ illegale. Ma il sistema di caste razziali non e’ stato abolito nonostante questo. E’ stato ricostruito attraverso la guerra alla droga e l’incarcerazione di massa.
Il colpo di forza del libro consiste nel ridisegnare la realta’ di cio’ che e’ chiamato, dal 1982, la “guerra alle droghe”. Essa non e’ una guerra alla droga. Le statistiche mostrano che i neri e i bianchi hanno delle pratiche comparabili di consumo o di traffico di droga. La guerra alla droga riguarda pertanto, in modo esagerato, i neri. In alcuni Stati, gli uomini afro-americani sono incarcerati per dei crimini da venti a cinquanta volte in piu’ che non i bianchi. Quando le istituzioni non fanno quello per cui sono preposte, esse fanno altre cose. E’ la grande lezione del pensiero critico. Fedele a questa tradizione, Alexander si domanda quale sia la funzione della guerra alle droghe. E risponde: serve ad inserire i neri nella categoria di criminali, si’ da poterli discriminare.
Si dimentica troppo spesso che la discriminazione non e’ vietata in Usa. Essa e’ legale per i criminali. Nel momento in cui si viene etichettati come “delinquenti”, un insieme di discriminazioni cascano si di te, facendoti appartenere ad uno statuto di inferiorita’ per, talvolta, tutta la tua vita: perdita del diritto di voto, divieto di abitare in alcuni quartieri, esclusione per le liste delle case popolari, legittimita’ della discriminazione sul lavoro, etc. “In quanto ‘criminale’, hai a malapena i tuoi diritti, e sei senza dubbio meno rispettato, cosi’ come un uomo nero che vive in Alabama o al culmine del sistema Jim Crow”, scrive Alexander. “I neri sono quelli maggiormente privati del diritto di voto che non nel 1870. I giovani uomini neri oggi hanno piu’ possibilita’ di soffrire di discriminazioni sul lavoro, sulla casa, sulle prestazioni sociali o nella partecipazione ad una giuria, rispetto all’uomo nero delle leggi Jim Crow”. Gli Usa non hanno quindi messo fine alle caste razziali. Le hanno semplicemente rimodellate.
Michelle Alexander mostra a che punto e’ importante che la scienza sociale rompa con le abdicazioni dell’empirismo che condanna a perdere le forze dell’azione. Ma soprattutto, non incita a prendere coscienza che noi non sappiamo mai prima la natura veritiera di un’istituzione. La storia e i significati ci vengono meno. E’ questa ignoranza che spiega perche’, spesso, le nostre lotte sono vane: noi sbagliamo i bersagli.
Nel momento in cui la Francia e’ attraversata da un dibattito sulle violenze poliziesche sui giovani neri ed arabi, questo libro ci stimola a porre attenzione sulle storie molto evidenti per riflettere il piu’ radicalmente possibile su cio’ che e’ in gioco.

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Michelle Alexander, una voce afro-americana. L’autore de “Il colore della giustizia” incarna una nuova generazione di intellettuali.
“Ci sono piu’ adulti afro-americani nella mani della giustizia -in prigione o in liberta’ condizionale- che non quelli ridotti in schiavitu’ nel 1850. Un bambino nero ha meno possibilita’ di essere allevato dai suoi due genitori che un bambino nero all’epoca della schiavitu’”. Pubblicato nel 2010 in Usa, il saggio di Michelle Alexander “The New Jim Crow”, e’ rapidamente diventato un best seller. E’ un’inchiesta choc, appassionante e terrificante, documentata e molto dibattuta quando e’ uscita, oltre Atlantico. Il suo autore e’ professore universitario, avvocato per i diritti civili. Come il giornalista Ta-Nehisi Coates, fa parte di un generazione di intellettuali afro-americani che, piu’ radicali dei loro avi, non credono piu’ alla bella storia dell’America postrazziale. Il movimento Black Lives Matter ha reso note le violenze poliziesche riguardo ai neri, dell’assassinio di Charleston e l’elezione di Trump sembrano dar loro ragione.
La tesi e’ brutale: il sistema giudiziario americano e l’incarcerazione di massa dei neri americani sono il pilastro di una nuova segregazione razziale, crudele nello stesso modo in cui si manifestava negli Stati del sud all’inizio del XX secolo. Il tono e’ talvolta lapidario (“nella guerra alla droga, il nemico e’ definito dalla razza”), ma con argomentazioni precise e avvincenti. Rendere noti i meccanismi che portano a fermare gli uomini neri poveri, non e’ una novita’. Ma nel suo saggio Alexander va piu’ lontano: dopo la schiavitu’, dopo la segregazione, un nuovo sistema di casta razziale e’ stato organizzato. Siccome la prigione marca a fuoco gli individui ben oltre il loro mero passaggio tra i suoi muri (soppressione del diritto di voto, di alloggio, di aiuti alimentari… talvolta a vita).
Pur limitandosi, da decenni, alla promozione delle “Azioni affermative” nei luoghi di potere, i militanti dei diritti civili hanno avuto a che fare con un sistema segregazionista.
Il suo libro e’ diventato il manifesto dei militanti per la riforma del sistema penale americano, che in questi ultimi anni, prima della vittoria di Trump, aveva guadagnato dei punti. “Il sistema e’ particolarmente deteriorato da soldi e razza”, aveva detto Barack Obama nel 2015. Alcuni Stati repubblicani come il Texas, hanno fatto calare il numero dei detenuti nelle loro carceri solo per un problema di budget. Se gli Usa non affronteranno in modo deciso il ruolo della razza nella loro societa’, le prigioni potrebbero diventare un punto di riferimento e, “inevitabilmente, un nuovo sistema di controllo razziale emergera’”.

(articolo di Geoffroy de Lagasnerie, Sociologo e filosofo, pubblicato sul quotidiano Libération del 14/03/2017)
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