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Un'oasi di pace per Ebrei e Palestinesi
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Articolo di Annapaola Laldi
20 agosto 2014 10:20
 
Sono da anni in contatto con lAssociazione italiana Amici di Neve Shalom – Wahat al-Salam (NS-WaS)  e le sono debitrice di una visione dei problemi di convivenza tra Ebrei ed Arabi in terra d’Israele, che rende giustizia alla loro complessità.
L’ebraico Neve Shalom e l’arabo Wahat al Salam significano Oasi di pace, e la dizione bilingue è già un chiaro segno che lì, in quel villaggio in terra d’Israele, si pratica la convivenza pacifica tra due popoli (gli ebrei e gli arabi palestinesi) e tre religioni (ebraica, musulmana e cristiana), affrontando insieme gli innegabili conflitti esistenti e cercando di risolverli nel rispetto della identità di ciascun gruppo e persona. Nel corso dei quarant’anni della sua esistenza questo Villaggio è diventato famoso anche per la sua “Scuola della Pace” che accoglie ospiti dall’estero e all’estero va coi suoi docenti e discenti per far conoscere la propria pedagogia attiva della pace. Per tutto ciò e altro ancora l’ Oasi di Pace continua a essere un punto di riferimento per tanta gente e il centro di una fitta rete di amicizia e solidarietà internazionale.
Sull’ultimo numero del notiziario ho letto lo scritto di Davide Lanzarini, che trascrivo qui sotto. Si tratta del resoconto, semplice e pregnante, del suo viaggio in Israele e a NS/WaS. Secondo me, leggerlo, proprio in questo momento, può far venire la voglia di informarsi più accuratamente sulla realtà dei due popoli (per es., vi si apprende che gli ebrei non sono affatto tutti d’accordo con le scelte del loro governo e ci sono movimenti di resistenza verso di esse e di solidarietà verso gli arabi), per cercare di capire meglio la imprescindibile “dualità” presente in questo paese. Solo così, a mio avviso, possiamo davvero essere d’aiuto “a quanti in Palestina gridano al dialogo o invocano giustizia”.


Con parole mie  (di Davide Lanzarini)
Ammetto di essere partito un filo preoccupato per la mia capacità di mantenermi oggettivo. In preparazione al viaggio, i miei conoscenti mi fornirono entusiasti consigli o letture: ciononostante, partivo preoccupato per l’influenza che questo Paese pieno di meraviglie e contraddizioni avrebbe potuto esercitare su di me. Fortunatamente, l’organizzazione del viaggio sopperì a tutto questo, e mi ritrovai a osservare Gerusalemme con le sue mille luci notturne dalla prospettiva del Monte degli Ulivi, e poi a camminare al suo interno, osservando la differenza schiacciante tra la Parte Est e quella Ovest, primo contrasto di una lunga serie.
Credo di aver capito che se c’è una cosa che conta laggiù è stare attenti alla dualità, perché, in una situazione di così forti tensioni, dare attenzione solo a una parte ti porta inevitabilmente a schierarti.
E, come ci hanno detto poi, tornare da Israele con meno dubbi di prima significa che non si è scavato abbastanza a fondo. Questo dualismo lo comprendi bene girando per Gerusalemme. E bisogna sapersi commuovere davanti ai bambini nelle viuzze di Hebron come davanti al Monumento dei Bambini a Yad Vashem. Occorre indignarsi, come Daniela Yoel e le donne israeliane di Machsom Watch  davanti all’inumana situazione dei checkpoint, o gli attivisti di Ichahd  davanti alla demolizione delle case palestinesi. Occorre opporsi, come i Combattenti per la pace, come Sagi, incontrato al Villaggioguardare negli occhi i commercianti di Hebron e ascoltare le voci di quanti in Palestina gridano al dialogo o invocano giustizia. Bisogna farlo: è necessario e quantomeno umano.
Ed è proprio in questo rispetto per entrambe le identità che il Villaggio mi ha colpito.
Spostarsi da Gerusalemme alla quiete di Neve Shalom – Wahat al Salam può lasciarti per un attimo rintronato. Ti chiedi che fine abbia fatto il traffico di turisti, venditori ambulanti e ortodossi diretti o di ritorno dalla preghiera. E forse, dopo tanta confusione, la Casa del Silenzio è quanto c’è di meglio per affrontare dentro di sé quanto si è visto e toccato con mano nei giorni precedenti. E’ una quiete diversa dall’assolato deserto del Negev, che pure è pieno di vita. Lì capisci veramente perché si chiami “Oasi di Pace”. Eppure è un’oasi di pace che si affaccia su un paese in tempesta. Anche se la tempesta non la vedi, la puoi però percepire. E’ tutta intorno a te, nonostante la familiarità con cui i locali trattano posti di blocco, torrette fortificate o soldati in transito. A quel punto sorge la domanda: ma è un’oasi di transito o un punto di arrivo? Mi piace pensare che sia il traguardo finale di un lungo e tortuoso viaggio che questi due popoli stanno compiendo. A Neve Shalom, dove si pratica la pace tra le sue difficoltà e i suoi dolori, dove le due identità cercano il confronto e il rispetto delle reciproche identità, puoi veramente sognare un’oasi di pace. A Neve Shalom l’intricato mosaico di contraddizioni lo puoi riordinare. Puoi far combaciare tutte le differenze proprio perché è di differenze che vengono riconosciute ed accettate che si parla. Annullare completamente una o l’altra delle parti in gioco, o mantenerle in contrasto in eterno, non funziona. Devi capirle, conoscerle e riconoscerle, per poi poterle far combaciare senza che nessuna delle due perda la sua peculiarità. E’ con un augurio di pace che concludo la mia testimonianza. (Davide Lanzarini)

Appendice
Di Neve Shalom-Wahat al Salam ho già scritto nel 2002, nell'articolo In un'oasi di pace per vivere il conflitto, quando riferii di un incontro a Bagno a Ripoli, vicino a Firenze, con due donne, una ebrea e una palestinese, che erano venute in Italia per presentare la loro esperienza.
Il Villaggio è stato fondato su ispirazione di una figura profetica e affascinante che risponde al nome di
Bruno Hussar  (1911-1996).
Ringrazio l’Associazione Italiana Amici di NS/W-aS per il permesso accordatomi di riprodurre l’articolo pubblicato sul n. 10 (estate 2014) del suo “Notiziario”.

 
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