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Una persona puo' sentirsi 'bianca' solo per opporsi a 'nero' o 'giallo'
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Articolo di Redazione
29 agosto 2015 14:27
 
Intervista a Gérard Noiret, direttore emerito alla Scuola degli alti studi di scienze sociali in Francia, che ha molto lavorato sulla storia dell'immigrazione.
D. Nei dibattiti pubblici si usa raramente la parola “bianco”. E ancora piu' di rado si pensa “bianco”. Si tratta di un tabu'? Che sta per essere superato?
R. La vostra domanda distingue, giustamente, il livello dei discorsi (dire “bianco”) e il livello dell'autopercezione (pensare “bianco”). Il primo livello riguarda gli ambienti pubblici: il linguaggio politico e le pratiche giuridico-amministrative.. Nel francese, come si sa, la Repubblica ha sempre rifiutato di classificare le persone a partire dalla loro religione o dalla loro origine etnico-razziale. E' uno dei motivi che spiega la scarsa importanza che viene data al colore della pelle per indicare le persone.
Nella realta', noi siamo tutti delle persone, cioe' delle combinazioni infinitamente variegate di una moltitudine di criteri identitari. Noi non usiamo sempre tutte queste nostre caratteristiche. Queste funzionano come delle identita' latenti che devono essere stimolate per venire alla superficie della nostra coscienza. In base ai contesti ed ai momenti, questo o quell'altro criterio prendera' il sopravvento sugli altri: la classe sociale, il genere, la nazionalita', etc. Coloro che fanno riferimento all'identita' sono persone che parlano in pubblico e, in proposito, possono mettere in movimento questo o quel riferimento identitario a svantaggio degli altri. In funzione dei propri interessi. Io faccio fare delle ricerche di scienze sociali che ci devono servire a studiare la realta', mettendo in rilievo la complessita' delle appartenenze identitarie, senza scegliere al posto dei cittadini. Ma molti dei miei colleghi che lavorano su queste questioni si comportano come degli esperti, o dei portavoce. In base alla loro scienza, essi non esitano di dire alle persone quella che e' la loro “vera” identita'.
Il modo in cui gli individui si percepiscono e' in effetti sempre riferito ai modelli che vengono fatti da coloro che fanno discorsi in pubblico. Comunque, una identita' si definisce sempre anche per opposizione rispetto a quello che non e', nella logica di “loro” e “noi”. Una persona non puo' sentirsi “bianco” se non per opposizione a “nero” o a “giallo”. Non e' eccessivo credere che il colore della pelle e' sempre stato percepito come un fattore identitario in ambito coloniale. Fino al 1914, in Francia, i francesi non si sentivano bianchi, semplicemente perchè il numero di immigrati che provenivano dall'impero coloniale era estremamente basso.
D- E' una categoria pertinente? La usate?
R. Tutto dipende da cio' che si intende per “categoria”. Io preferisco dire che mi vengono da utilizzare delle parole che rinviano ai colori per individuare dei gruppi di persone (come la parola “bianco”) quando i personaggi storici che io studio le usano essi stessi per definirsi e per giustificare i loro interessi. Ricordo che l'uso del vocabolario dei colori per indicare delle razze, ha anche una storia. Fino al 1914, in Francia, il termine piu' frequentemente utilizzato era quello di “negro”. Indicava, nella stampa dell'epoca, non solo i “Neri”, ma anche i rappresentanti degli altri popoli colonizzati (Arabi, Canachi, Indiani, etc.). Il colore della pelle giocava gia' un ruolo maggiore nella percezione dell'altro (il modo di dire piu' frequente era i “negri, sbiancati male” - “nègres mal blanchis”), ma non era ancora stata creata una categoria. Questo processo di classificazione (categorizzazione) e' nato nell'ambito di una molto piccola élite di antropologi che hanno poco a poco diffuso pubblicamente la nozione di “razza nera” invece della parola “negro”.
D. Questa nozione permette di meglio identificare alcuni privilegi di cui beneficiano i Bianchi?
R. E' certo che nel contesto della dominazione coloniale, il fatto di poter dire “bianco” e' servito a legittimare alcuni privilegi. Ma questo argomento e' stato costantemente associato ad altri criteri rilevanti, essenzialmente l'educazione e la competenza.
D. Dire “Bianco”, “Nero”, “Arabo” o “Giallo”, e' quindi il contrario, secondo voi, rispetto ad aggiungere una nuova categoria a quelle che gia' “dividono” i cittadini, cosi' come accade essenzialmente tra i giovani dei quartieri popolari?
R. Non bisogna dare molta importanza alle polemiche che dividono il piccolo ambito degli esperti. La frammentazione della societa' francese ha soprattutto delle origini economiche. Questo significa che secondo me la perdita d'importanza del movimento operaio ha provocato un indebolimento del discorso sociale a vantaggio delle logiche identitarie. Queste sono in effetti dei fattori di divisione perche' le persone che potrebbero raggrupparsi sulla base di un comune interesse (la miseria, la disoccupazione, etc), si indirizzano su dei particolarismi di religione, di colore della pelle, etc.
D. Chi sono coloro che utilizzano il termini “Bianco” e perche'?
R. Il fatto che alcune associazioni antirazziste abbiano deciso di utilizzare lo slogan del “razzismo antibianco” (tema che il FN-Fronte Nazionale ha messo in circolazione nel suo primo congresso, nel 1973), la dice lunga sulla loro attuale confusione. Quando dei gruppi ben individuati occupano localmente una posizione egemonica, perche' sono i piu' numerosi in un quartiere diseredato, alcuni dei loro appartenenti possono avere comportamenti discriminatori verso coloro che provengono da un gruppo maggioritario, ma che vivono in questi quartieri. Il problema e' di sapere quali conclusioni possono essere tratte da questi fatti. Storicamente, la parola razzismo e' nata per denunciare dei discorsi e delle pratiche politiche che tendevano ad escludere, e talvolta anche a sterminare, alcuni gruppi in funzione della loro religione, della loro origine.. Non si tratta, evidentemente, di scusare i discorsi e i comportamenti popolari tipici di una intolleranza verso i “Bianchi”, ma usare il termine “razzismo” per qualificarli, serve solo a chiarire questo concetto (e l'ideale universalista che all'inizio lo indirizzava) nel suo senso, banalizzandolo. Oggi si vedono bene gli effetti deleteri di questa banalizzazione. Quanto qualcuno puo' accusare il proprio vicino di essere “razzista”, vuol dire che la parola ha perso tutto il proprio significato politico.

(intervista di Sonya Faure pubblicata sul quotidiano Libération del 29/08/2015)
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